Gas, acqua nei pozzi, osservazioni dallo spazio «Sappiamo dove succederà, ma non quando»
La previsione dei terremoti? Somiglia ad un miraggio. Ogni tanto qualche ricercatore pensa di esserci giunto a un passo, ma in quello stesso istante tutto sfuma e si allontana. È così da trent’anni, per limitarci al periodo in cui le ricerche sulla previsione sismica hanno conosciuto un maggiore impulso. A turno, alcuni fenomeni che effettivamente precedono e accompagnano le crisi sismiche sono stati indicati come efficaci segnali premonitori. La frenetica agitazione di animali da cortile come cani, gatti, polli e mucche. Le variazioni di livello di fluidi sotterranei che si evidenziano, per esempio, come oscillazioni di acqua nei pozzi. I cupi boati che preannunciano la rottura delle faglie per effetto delle tensioni accumulate nella crosta terrestre. Saette, globi e altri fenomeni luminosi che solcano l’atmosfera elettrizzata.
Il figlio dell’uranio
E poi c’è il radon, di cui tanto si parla in questi giorni: questo gas figlio dell’uranio radioattivo che può emergere dal sottosuolo in quantità superiori alla norma, quando la dinamica interna del nostro pianeta piega e comprime le rocce fino a spezzarle. Lo stesso radon, per inciso, che in alcune aree della nostra penisola, come nel Viterbese, diventa problema sanitario se penetra e ristagna nei piani bassi delle abitazioni, perché può provocare il cancro ai polmoni. «L’errore commesso da alcuni ricercatori che si sono impegnati negli studi di previsione sismica è stato credere che ci fosse una relazione univoca di causa ed effetto fra la comparsa di uno di questi fenomeni e la scossa di terremoto. E, invece, non si tratta di indizi sufficienti — commenta il sismologo Massimo Cocco, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) —. Ci hanno provato in tanti a seguire questa strada, col risultato che molte volte c’erano i presunti segnali premonitori e poi non arrivava il terremoto, molte altre il terremoto colpiva improvvisamente, senza essere preceduto da alcun segnale, e solo occasionalmente si sono verificati insieme precursori e sisma».
L’annuncio americano
Gli americani ci hanno sbattuto la testa per primi, annunciando, in alcuni articoli scientifici apparsi all’inizio degli anni 80, che la previsione deterministica, cioè la capacità di predire dove e quando di un terremoto, era dietro l’angolo, grazie all’individuazione di preavvisi naturali affidabili. Ma è stato proprio quel grande laboratorio naturale di scuotimenti tellurici che è la California a deludere le aspettative. Poi c’è stata la mobilitazione degli scienziati giapponesi, che pensavano di risolvere il problema con un apparato osservativo tecnologicamente sofisticato e capillare; ma la loro ondata di studi e di monitoraggi si è infranta contro il disastro di Kobe del 1995: oltre 5.000 morti, una magnitudo di 7,3 Richter che si è fatta beffa di molte costruzioni antisismiche e, manco a dirlo, nessun precursore utile ad attenuare il disastro.
Le galline cinesi
Si racconta anche che, presi dall’esaltazione maoista, a preannunciare l’arrivo di terremoti catastrofici, ci avevano provato i cinesi negli anni 70, affidando alle guardie rosse l’osservazione minuta del territorio a caccia di presagi di tipo rurale: galline impazzite, bisce che sgusciano dal terreno e zampilli di acqua inattesi. Col risultato che una volta gli è andata bene: ad Haicheng, nel febbraio 1975, quando effettivamente fecero evacuare i villaggi prima di un forte terremoto che spianò il 50% delle povere abitazioni. Ma le volte successive non funzionò. Tanto che il 28 luglio 1976 la regione di Tangshan accusò oltre 300.000 morti in quello che viene considerato il più distruttivo sisma del secolo. Solo gli abitanti della zona di Qinglon, dove i segnali premonitori si erano evidenziati, poterono sfuggire al disastro, a dimostrazione che non si tratta di fenomeni ubiquitari e costanti. Ma se hanno fallito le tecnologie di monitoraggio più avanzate, assieme a quelle più naif, allora che speranze abbiamo di arrivare a previsioni sismiche almeno altrettanto efficaci come quelle meteorologiche, con un sismologo che ci sconsigli di dormire per una notte sotto il nostro tetto a rischio di crolli? «Le speranze ci sono, eccome— incoraggia Gianluca Valensise, un altro dirigente di ricerca dell’Ingv, esperto in "strutture sismogenetiche" —. Esse stanno nel fatto che già oggi siamo in grado di dire con precisione dove si scatenerà il terremoto e con quale intensità massima; al quando ci arriveremo a poco a poco, affinando gli studi». Valensise si riferisce agli studi che permettono di individuare le faglie che generano i terremoti e di capire, attraverso indagini storiche e geologiche, come e quando esse si sono mosse nei tempi passati. «Per esempio la faglia di circa 10 chilometri che ha generato il terremoto dell’Aquila rappresentava una lacuna ferma da tempo immemorabile, posta fra un’altra faglia più a nord che aveva provocato un terremoto nel 1703 e una più a sud responsabile di un terremoto nel 1300. Dunque era legittimo aspettarsi che anche questa faglia-lacuna, prima o poi, si dovesse attivare».
Gli studi sulle faglie
Ma prima o poi quando? Una risposta meno vaga, promettono sia Cocco che Valensise, potrà venire dall’approfondimento degli studi sulle faglie sismogenetiche, che ci stanno portando a formulare delle previsioni di tipo probabilistico. Si potrà sapere, per esempio, che il terremoto, in quella certa zona sismica lacunosa, avverrà con la probabilità del 50% entro un anno. Non si potrà tenere lontana la popolazione dalle proprie abitazioni per 365 giorni ma, in un Paese moderno e previdente, tanto dovrebbe servire a mettere in sicurezza il territorio con opere di consolidamento degli edifici più vulnerabili. Quanto al radon e agli altri precursori, suggerisce Cocco, forse bisognerà seguire l’esempio dei giapponesi che, dopo la mazzata di Kobe, hanno deciso di rifondare il loro sistema di osservazioni, andando a caccia di altri indicatori geofisici più efficaci e affidabili; e dei californiani, i quali hanno lanciato un programma internazionale intitolato «Studi collaborativi per la prevedibilità dei terremoti». E a quest’ultimo l’Italia, attraverso l’Ingv, ha prontamente aderito, nella speranza che dal coordinamento degli sforzi internazionali arrivi la soluzione del problema.
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