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domenica 30 maggio 2010

Armi :l'export che ignora la crisi Nell'ultimo biennio aumento del 74%

C'è un export che non conosce crisi, quello delle armi. Tra il 2008 e il 2009, quando tutti i settori produttivi, senza eccezioni, ripiegavano su percentuali negative (dalle quali stentano a riprendersi) l'esportazione italiana di armamenti ha raggiunto un picco del +74 per cento. Il dato emerge dal rapporto "Finanza e armamenti: le connessioni di un mercato globale", presentato stamane a "Terra Futura", a Firenze, dall'Ires Toscana.

"E' perché si tratta di un trend legato al terrorismo internazionale, sganciato quindi dalla crisi. I committenti sono Paesi che si trovano in aree critiche, che si sentono minacciati. Infatti negli ultimi due anni ci sono state grosse commesse alle imprese italiane da parte di Arabia Saudita, Turchia, Iraq e Libia", spiega uno degli autori della ricerca, Giorgio Beretta, caporedattore di Unimondo.
Nell'ultimo decennio, attesta il rapporto, sono state autorizzate agli istituti di credito italiani operazioni relative a esportazioni di armamenti italiani per un valore di 15,5 miliardi di euro. Per l'esportazione, le imprese italiane si appoggiano in molti casi alle banche italiane. Nel solo 2009 gli istituti di credito del nostro Paese si sono ripartiti operazioni di incasso da vendite dell'industria italiana di prodotti per la "sicurezza e difesa" pari a 3,79 miliardi di euro, su un totale di commesse autorizzate alle aziende pari a 4,9 miliardi che, con una crescita del 61% rispetto al 2008, rappresentano il record ventennale dell'esportazione del settore.

"Più del 55% delle operazioni relative alle esportazioni - spiegano Beretta e Chiara Bonaiuti, l'altra autrice del rapporto - sono ripartite in maniera abbastamza uniforme fra tre gruppi bancari: il gruppo BNL-BNP Paribas, che ha assunto operazioni per oltre 3,3 miliardi di euro (cioè il 21,5% del totale); il gruppo Capitalia-Unicredit che - soprattutto per le operazioni autorizzate alla Banca di Roma - ne ha assunte per oltre 2,65 miliardi di euro, cioè il 17,2%, e infine il gruppo Intesa-SanPaolo, che ne ha svolte per oltre 2,62 miliardi di euro (16,91%)".

Tuttavia, spiega Beretta, "negli ultimi tre anni Intesa-SanPaolo e Unicredit hanno limitato e contenuto le loro operazioni, soprattutto Intesa, mentre BNL-BNP ha comunque una policy piuttosto rigorosa, restringe le operazioni a Paesi Nato e dell'Unione Europea". Dunque ultimamente sono altre le banche che si contendono le operazioni di appoggio all'esportazione delle imprese italiane. Quali, e in che misura, dice Beretta, è però complicato sapere dal momento che "da tre anni a questa parte è sparito "l'elenco di dettaglio degli istituti di credito" che dal 1990 veniva pubblicato a cura delle presidenza del Consiglio. E quindi i ricercatori devono accontentarsi dei dati sulle operazioni autorizzate e delle autocertificazioni delle banche.

Altro campo d'indagine del rapporto è quello dei fondi comuni d'investimento venduti ai risparmiatori dalle banche: il 70% contiene azioni di aziende a produzione militare. L'unica società d'intermediazione italiana che non ha alcun coinvolgimento in materia è Etica Sgr (Banca Etica). Al primo posto, emerge dal rapporto, si colloca Unicredit (478 milioni di euro investiti in aziende produttrici di armi), seguono Mediolanum (207 milioni di euro), Intesa SanPaolo (189 milioni di euro).

"I fondi più esposti sono quelli tematici con focus geografico o tecnologico - spiega Chiara Bonaiuti - ad esempio il cliente che abbia acquistato il fondo Pioneer SF US Equità Market Plus, ha investito in 13 delle prime 100 aziende a produzione militare, tra le quali Boeing, Lookheed Martin, General Dynamics, Textron, Rayteon, United Technologies, due delle quali producono armi nucleari e tre munizioni cluster. Altro fondo esposto è l'Eurizon Easy Fund di Equity Industrial".

Se la stragrande maggioranza dei fondi comuni d'investimento contiene partecipazioni in aziende che producono armi, qualche investimento di questo tipo è stato rilevato dai ricercatori anche nell'ambito dei fondi pensione. "Si tratta di investimenti marginali rispetto a quelli dei grandi fondi pensione americani, ma sempre significativi da un punto di vista qualitativo", dice Franco Bortolotti, coordinatore scientifico di Ires Toscana.
fonte:repubblica.it

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