La nostra società necessita urgentemente di fonti rinnovabili di energia che siano ampiamente distribuite, poco costose e non inquinanti. Una risposta sta già venendo dall'utilizzo delle piante per produrre biocarburanti. Quelli di prima generazione sono tuttavia messi in discussione perché la loro produzione causa altri malanni sottraendo quantità sostanziose di cibo e di terreno, e facendo per giunta salire i prezzi degli alimenti. Ma ora una nuova scoperta sul modo in cui avviene la fotosintesi, il processo basilare attraverso il quale le piante captano l'energia luminosa proveniente dal Sole e la convertono in energia chimica per la produzione di carboidrati, potrebbe portare a interessanti prospettive in campo energetico.
Un gruppo di ricerca dell'Università dell'Arizona in collaborazione con il Max Planck Institute di Mülheim in Germania ha condotto uno studio su un'alga verde unicellulare (Chlamydomonas reinhardtii) che potrebbe avere un valore generale di grande portata. Kevin Redding e i suoi collaboratori hanno indagato il «centro di reazione del fotosistema 1», punto cruciale della fase luminosa della fotosintesi, individuando il momento in cui l'energia elettromagnetica della luce viene trasformata in energia chimica (alla fine della catena si produce glucosio). Cosa che solo le piante sanno fare. E' questo un evento nel processo fotosintetico che si avvia in un tempo rapidissimo, un picosecondo (un milionesimo di milionesimo di secondo). Gli scienziati hanno anche dimostrato che esistono due dispositivi per il trasferimento di elettroni al fine di migliorare la resa fotosintetica, e che possono essere attivati indipendentemente l'uno dall'altro.
In prospettiva c'è un progetto ambizioso: massimizzare l'efficienza di questi due sistemi separati ma che cooperano, per realizzare una fotosintesi artificiale, che utilizzando la luce, sottragga CO2 dall'atmosfera, produca un carburante pulito e facilmente disponibile. E' invece già una realtà la produzione di biocarburanti che superano quelli di prima generazione (come si è visto sotto accusa), attraverso nuove metodologie e nuove piante. Quelli di seconda generazione utilizzano infatti parti delle piante che andrebbero gettate, la biomassa di residui agricoli (mais) o erbe perenni non alimentari quali il Miscanthus o il Panicum virgatum o un arbusto, la Jatropha. Ma la risorsa più promettente sono le alghe, sia unicellulari (quali Chlorella, Botrycoccus) che pluricellulari (Gracilaria, Sargassum). Una terza generazione punta sulle modifiche genetiche di piante per renderle più produttive: è per esempio il caso degli alberi di pioppo ogm, ad alta resa, o del tabacco (le cui foglie sono ricche di olio). L'ultima generazione però utilizza microorganismi geneticamente modificati (come per esempio l'alga Chlamydomonas, di cui si conosce 'l'intero genoma). E recentemente è stato scoperto in Patagonia un fungo, Gliocladium roseum, per il cosidetto myco-diesel: è infatti in grado di convertire in idrocarburi la cellulosa.
fonte:corriere.it
Nessun commento:
Posta un commento