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venerdì 18 giugno 2010

AMBIENTE : Le 700 trivelle che bucano l'Italia Riparte la corsa all'oro nero


Dall'Elba alle Tremiti i piani dei petrolieri. E piovono autorizzazioni. Appena approvate nuove perforazioni per mettere le mani su cento milioni di tonnellate custoditi nel nostro sottosuolo

Le trivelle che inseguono il petrolio scendono fino a quattro, cinque, seimila metri. Dalle terre del riso nella pianura Padana alle modeste profondità del medio Adriatico, dalle alture dell'Abruzzo fino alla Basilicata e alle coste della Sicilia, i 700 pozzi attivi rendono ogni anno quattro milioni di tonnellate di greggio a terra e mezzo milione a mare.


È una quantità modesta. Incide per meno del 4% sulla bilancia energetica del Paese e rappresenta solo il 5% del fabbisogno nazionale. Ma si potrebbe produrre di più, dicono i petrolieri. Perché l'Italia, sostengono, custodisce nel sottosuolo almeno cento milioni di tonnellate, senza contare che molte aree sono ancora tutte da investigare. E di questi tempi, con il prezzo che è destinato a salire, e con le riserve occidentali in progressivo esaurimento, non c'è da star lì a vagheggiare scenari di energie alternative che incideranno, forse, tra decenni. Perché nel frattempo il mondo gira alla velocità che conosciamo, e ciò che lo fa girare, piaccia o meno, è quel fossile che molti chiamano "oro nero". Dunque la parola d'ordine è: trivellare. Ovvero: abbiamo il petrolio, andiamo a prendercelo. E' un boom di richieste per sfruttare nuovi e antichi giacimenti.
Ma ha senso, oggi, con la catastrofe del Golfo del Messico ancora negli occhi, e mezzo secolo dopo Enrico Mattei, dare il via a una nuova ondata di perforazioni in Italia? Quali sono le ragioni della corsa all'oro nero che preoccupa molte
comunità locali? E qual è il rapporto costi-benefici per il cosiddetto "sistema-Paese"?

L'ONDATA DEI PICCOLI PETROLIERI
Le compagnie italiane e straniere negli ultimi due-tre anni si sono messe in fila ai ministeri dello Sviluppo economico e dell'Ambiente. I numeri delle autorizzazioni parlano da soli: un centinaio di nuove trivellazioni sono al via. Ad oggi, infatti, sono 95 i permessi rilasciati: 71 a terra (25mila chilometri quadrati, un'area equivalente alla Sicilia) e 24 a mare (11mila chilometri quadrati, quanto l'Abruzzo). 65 le istanze per nuove ricerche: 24 a terra (7mila kmq) e 41 a mare (23mila).

"Non lo definirei un boom. Piuttosto, dopo un periodo d'impasse, il ministero dell'Ambiente sta smaltendo l'arretrato di richieste", spiega Franco Terlizzese, direttore generale per le risorse energetiche dello Sviluppo economico. È una realtà ben delineata dalle cifre: con l'attuale governo, in carica dal maggio 2008, la corsa al petrolio è ripartita in grande stile. Arrivano dal Canada e dall'Australia, dall'Irlanda e dall'Inghilterra, ma soprattutto dagli Stati Uniti. Nei fatti, quello cui si sta assistendo, è l'assalto delle compagnie, in particolare piccole e medio-piccole.

I petrolieri hanno presentato richieste per ogni angolo del nostro Paese. Quali sono i loro obiettivi? E qual è la loro tecnica? Una definizione che viene data è "upstream dell'upstream", ovvero: esplorare qualsiasi traccia di petrolio (e anche di gas), verificare le "spigolature", come vengono definiti i giacimenti residuali, per poi magari "girare" le concessioni ad altre società, spesso italiane. Ma non è il "mordi e fuggi" di chi sembra considerare l'Italia una semplice espressione geologica? Claudio Descalzi, presidente di Assomineraria, ammette un "certo disordine iniziale", ma difende il settore: "È un movimento che porta investimenti, royalties e vivacità".

Sulla "vivacità" non ci sono dubbi. Quando le compagnie si presentano con le loro trivelle nelle aree prescelte, spesso nascono i conflitti. Molti comuni, refrattari alle royalties garantite dalla legge, si oppongono. Anche duramente. Ma soprattutto reagiscono fette importanti della popolazione, coalizzate in una resistenza trasversale che al grido di "no al petrolio" supera e accantona le diverse appartenenze politiche.

DALLA BRIANZA ALL'ELBA
Il parco del Curone in Brianza. Le isole Tremiti. Le coste della Sicilia. Metà del territorio abruzzese. Tutta la bassa padana dal Piemonte all'Adriatico. La costa dalle Marche alla Puglia. Il mare di Cagliari e di Oristano. L'area tra le Egadi e Pantelleria. Lo Ionio calabrese. Il mare a sud dell'Elba. Queste alcune delle zone nelle quali le compagnie cercano il petrolio o vorrebbero farlo.

"Il Paese ha grandi ricchezze e non possiamo lasciarle nel sottosuolo, visto che poi siamo costretti a comprare all'estero", dice ancora Claudio Descalzi elencando i principali numeri del comparto. Assomineraria raggruppa 126 aziende, 65mila addetti, un indotto multi-settoriale e un know-how d'eccellenza. "Alle comunità locali dobbiamo spiegare che la nostra attività porta sviluppo, lavoro e benessere".

Giuseppe Tannoia, responsabile dell'Eni per il sud Europa, aggiunge: "L'estrazione del petrolio e del gas è una risorsa che dà sicurezza all'intero Paese".

Ma non eravamo la terra del sole e delle città d'arte, del mare e delle montagne? E i grandi vini? E l'agroalimentare di alta qualità? Ha senso "vendere" all'estero un'immagine del Paese e poi inseguire obiettivi industriali che a molti sembrano un salto nel passato?

Calma, dicono i petrolieri, perché intanto l'Italia è pur sempre tra le prime potenze industriali al mondo e il settore estrattivo nel 2009 ha versato allo Stato più di un miliardo di euro sul reddito e oltre 260 milioni in royalties. E poi, oggi, si può far tutto. Ombrelloni in spiaggia con le piattaforme che si stagliano a poche miglia dalla costa. Si possono coltivare vigneti doc mentre nella stessa zona si depura il greggio dallo zolfo in impianti chiamati sobriamente "Centro oli". Si possono pubblicizzare i parchi e, contestualmente, cercare nuovi giacimenti al limite, ma a volte anche dentro, le riserve naturali.

SVILUPPO COMPATIBILE
Lo chiamano "sviluppo compatibile". Non è un'espressione un po' spericolata? Una di quelle definizioni ambigue che rischiano di produrre più sospetti che certezze?

"È semplicemente il vecchio che avanza", sintetizza Nichi Vendola, governatore della Puglia, il quale nelle settimane scorse ha scoperto che l'irlandese Petroceltic si preparava a cercare petrolio alle Tremiti. "Il governo Berlusconi fa una politica arretrata anche sul piano energetico e tanto per cambiare rischia di distruggere il patrimonio più prezioso di questo Paese".

Sulla stessa lunghezza d'onda la Regione Toscana, che dopo aver respinto le trivelle dal Chianti, ha stabilito che di petrolio non si parlerà mai più. Almeno in terraferma, perché la Puma Petroleum vuol fare ricerche a sud dell'Elba, tra Montecristo e Pianosa, e in mare la giurisdizione è dello Stato. "Vero, ma non staremo a guardare", dice Anna Rita Bramerini, assessore regionale all'Ambiente. "E come sempre, se diremo no, non sarà per motivi ideologici ma legati a una seria programmazione: fonti rinnovabili e tutela del territorio".

Come Vendola e Bramerini, amministratori del centrosinistra, la pensano in molti, ma gli schieramenti non sono scontati, tutt'altro. Davide Tabarelli, intellettuale di quella sinistra emiliano-romagnola che da sempre cerca di coniugare industria, turismo e agroalimentare, è il presidente di Nomisma Energia. "Lo sviluppo compatibile è possibile", afferma. "Guardate Ravenna, dove una delle più belle spiagge della riviera convive con un distretto petrolifero tra i più importanti. La sinistra sbaglia: si è appiattita sull'anima ambientalista e sui comitati no-oil abdicando alla responsabilità di gestire un processo indispensabile".
In tempi di crisi economica, dice in sostanza Tabarelli, ci si può davvero permettere di sbattere la porta in faccia a un'industria che porta posti di lavoro, sviluppo di un indotto a largo raggio e royalties agli enti locali per alcuni decenni?

ROYALTIES E LAVORO
In Basilicata, dove il settore ha nella Val d'Agri il principale centro produttivo, soldi ne sono arrivati: seicento milioni di euro. Si sono realizzate opere pubbliche e si sviluppano iniziative legate all'archeologia e al turismo, "ma l'emigrazione dei giovani verso il nord continua", spiega Antonio Pepe, segretario regionale della Cgil. "I posti di lavoro creati dal petrolio non sono i duemila decantati dall'Eni ma cinquecento, metà dei quali per gente del posto. E di questi, solo una settantina sono stabili. Il resto è precariato".

Forse per molti giovani lucani non è questo il progresso sognato e hanno deciso di lasciarlo a chi lo vuole. "La prospettiva di una crescita industriale è tramontata da tempo. Oggi, attorno ai pozzi e al Centro oli, non c'è niente", osserva Vincenzo Vertunni, sindaco di Grumento (1.750 abitanti), che con Viggiano è uno dei due paesi petroliferi della Val d'Agri.

Andiamo a vedere. Il Centro oli è un impianto che occupa nove ettari di terreno. Riceve il petrolio dai pozzi vicini, lo "stabilizza" e attraverso l'oleodotto lo invia alle raffinerie pugliesi. Si staglia con la sua fiamma altissima in un'area di 134 ettari che è perlopiù di aziende fantasma e capannoni abbandonati. Di industriale c'è solo l'odore di idrogeno solforato e il rumore incessante dei mega alambicchi. Dove sono i benefici? C'è davvero una "via lucana" al benessere da petrolio? "Le royalties ci arrivano", ammette Vertunni. "In media oltre due milioni di euro all'anno. Sta a noi impiegare bene questi soldi per creare sviluppo. Ma siamo onesti: l'indotto industriale non esiste, né qui né altrove". Spiegare alle comunità locali, specie a quelle più bisognose, quanto potrebbe mutare il loro tenore di vita: sembra questo, oggi, il punto prioritario della nuova politica del settore petrolifero, che finora ha preferito cucire senza proclami le proprie alleanze in Parlamento e da lì fino alle stanze del potere locale, mantenendo all'esterno un profilo estremamente cauto. Sarà anche per questo che i petrolieri assegnano alle loro piattaforme simpatici nomi di pesci come "Sarago" e "Ombrina", chiamano "Centri Oli" gli impianti di desolforazione e definiscono "coltivazione" lo sfruttamento dei pozzi. E anche la qualifica di "petroliere" non va molto di moda.

LA CATASTROFE AMERICANA
"Confesso che non mi piace essere definito petroliere, io sono un imprenditore e un geologo", sorride Giuseppe Rigo, amministratore delegato della Vega Oil, compagnia italiana controllata dalla canadese Cygam Energy con concessioni in Abruzzo, Sicilia e, attraverso la Rigo Oil, in Tunisia. "Noi sappiamo che le nostre attività possono spaventare le comunità locali. Eppure le nostre piattaforme sono tra le più sicure del mondo e l'impatto ambientale è minimo".

La mappa degli impianti petroliferi off shore che ci mostra Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente, testimonia un forte interesse in Adriatico, specie in Abruzzo. Ed è proprio qui, nella "regione dei parchi", che negli ultimi mesi - ben prima della catastrofe americana - la lotta ai petrolieri ha raggiunto punte di autentica rivolta popolare. Se nel Parco del Curone, nella Brianza lecchese, la battaglia contro l'australiana Po Valley ha visto sindaci leghisti a fianco di sindaci del Pd, agricoltori con docenti universitari, in Abruzzo il fronte del no al petrolio si è rivelato ancora più eterogeneo e compatto. Ma i petrolieri, e le loro trivelle, non si fermano.
fonte:www.repubblica.it

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